Green Money, l’inchiesta che sconvolse Parma compie dieci anni: e ancora non c’è una sentenza

L’arrivo del commissario prefettizio, caduta la giunta, contribuì alla vulgata secondo cui l’Amministrazione fosse sommersa dai debiti. Ci vorranno anni per dimostrare che non era vero

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Green Money,  dieci anni dopo.

All’alba del 24 giugno del 2011, dopo aver  atteso la rugiada di San Giovanni, i finanzieri del Comando provinciale di Parma diedero il via alla maxi retata di dirigenti e funzionari comunali che, con il senno del poi, cambiò la storia del Paese.

“Green money” era il nome scelto per l’indagine che segnò la fine dell’amministrazione di Pietro Vignali, spalancando le porte al populismo del Movimento cinque stelle.

Le accuse erano pesantissime: corruzione, concussione, peculato, abuso d’ufficio, falso, truffa. In pratica quasi tutti i reati previsti dal codice penale ad esclusione dell’omicidio e della rapina.

A condurre l’inchiesta la pm Paola Dal Monte che, finita Green money, si lanciò, senza molta fantasia, in Easy money e Public money, inchieste che avevano sempre nel mirino il Comune di Parma.

Appena si sparse la voce degli arresti, il Comune venne preso d’assalto dagli “indignados”, dei contestatori in salsa parmigiana sul modello spagnolo che andava molto di moda in quell’anno. A fare da colonna sonora ai liberatori del Comune dal malaffare, il  rumore assordante delle pentole. Un rumore che caratterizzò tutti  i cortei dei contestatori, composti da protogrillini, esponenti dei centri sociali e della sinistra radicale.

L’Amministrazione parmigiana di centro destra passò nello spazio di una mattino dall’essere il fiore all’occhiello in Emilia -Vignali era fra i sindaci più stimati – all’essere il regno della corruzione  senza freni e si rubava ogni cosa.

Come tutte le inchieste che si rispettino la copertura mediatica fu fortissima.

I giornali avevano notizie in anteprima e tutti gli arresti vennero fatti in diretta tv.

Vignali, che aveva inizialmente provato a resistere, negando ogni responsabilità e scaricando tutte le eventuali responsabilità sui propri dirigenti, finì a sua volta arrestato.

I poteri forti che lo avevano sempre appoggiato lo abbandonarono al suo destino.

L’arrivo del commissario prefettizio, caduta la giunta, contribuì alla vulgata secondo cui l’Amministrazione fosse sommersa dai debiti. Ci vorranno anni per dimostrare che non fosse vero.

Federico Pizzarotti, un illustre sconosciuto che di mestiere si occupava di manutenzioni informatiche, vinse le elezioni a mani basse.  Il grido di battaglia, in un memorabile comizio in piazza della Pilotta alla presenza di Beppe Grillo, era “stop all’inceneritore e alle cementificazioni” volute  dalla giunta Vignali. Entrato in municipio uno dei suoi primi atti fu, però, quello di accendere l’inceneritore a Baganzola ed inaugurare il Ponte Nord.

Ruolo chiave in questo tsunami giudiziario lo ebbe il procuratore dell’epoca Gerardo Laguardia che, senza freni, arrivò anche a leggere le intercettazioni telefoniche imitando la voci degli indagati, per la felicità dei giornalisti.

Tutti i maggiori quotidiani mandarono inviati a Parma per seguire questa tangentopoli al culatello. Aldo Cazzullo, del Corriere, ci scrisse anche un libro. Ma non fu l’unico.

Gli avvocati stanchi della conduzione show delle inchieste tentarono una timida protesta, subito stoppata dai media che appoggiavano pancia a terra l’indagine.

A proposito dell’indagine, i conflitti d’interesse scandirono l’intera inchiesta.

Il marito della pm Dal Monte, ad esempio, aveva fatto domanda per prendere il posto del comandante della polizia municipale, Giovanni Jacobazzi, uno degli indagati.

La magistrata non si era astenuta ed era finita a sua volta indagata ad Ancona, Procura competente per i reati commessi dai magistrati emiliani.

Il caso scatenò la bagarre politica con interrogazioni parlamentari a nastro. “Gravissime ragioni di convenienza,  commistioni di ruoli con l’accusatore che aspira al ricongiungimento familiari sulla pelle di un suo indagato”, scrisse il senatore del Popolo della Libertà Filippo Berselli. Attacchi respinti dal Pd che appoggiava senza se e senza ma i magistrati.

La pm Dal Monte, per la cronaca, si asterrà dopo cinque anni, a scoppio ritardo.

Andato in pensione Laguardia, che poi si candiderà con centrosinistra alle amministrative di Parma in una lista di appoggio del Pd il partito che aveva “appoggiato” l’indagine, il suo posto sarà preso da Salvatore Rustico, il quale morirà senza aver visto la fine dei processi.

E già: tranne qualcuno che patteggiò e uscì subito di scena – tranne Vignali, tutte figure minori di basso profilo –  gli altri imputati eccellenti sono ancora al palo.

Nell’Italia della magistratura alla Palamara, una delle più inefficienti del mondo occidentale, quando si incappa in un procedimento penale è quasi sempre impossibile uscire.

Conclusosi il primo grado, pende da anni l’appello a Bologna. E non è dato sapere quando verrà fissata l’udienza.

Diversi indagati sono morti nel frattempo. Come il funzionario Paolo Signorini. Altri, in pensione da tempo, si trovano all’estero.

Di fatto, oggi, 24 giugno 2021, non c’è una sentenza definitiva che attesti la fondatezza o meno delle accuse della Procura di Parma.

Le tempistiche da Antico Testamento sono una costante delle indagini della Procura di Parma.

Una di questa, quella per le assunzioni illegittime dei dirigenti e  che aveva coinvolto ancora una Vignali e l’assessore al personale Giovanni Paolo Bernini, è durata otto anni.

La Procura, che ha fatto prescrivere in fase di indagini preliminari il procedimento, si accorse dopo quasi dieci anni che le investigazioni dei finanzieri erano state fatte male. Una delle indagate, la dirigente del personale Raffaella Rampini non ha potuto festeggiare l’assoluzione essendo morta nel frattempo. Il comandante della finanza dell’epoca, invece, è stato promosso generale ed ora è uno dei più fidati collaboratori del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.

Prima di concludere, un accenno ancora a Laguardia.

Celebre una sua dichiarazione, da portare ad esempio della terzietà  che deve avere un magistrato, a proposito di un’altra indagine, l’ennesima, sul Comune di Parma, quella sulla ristrutturazione e cambio di destinazione d’uso dell’ Ospedale Vecchio.

“Anche se il procedimento che si è concluso a sfavore (tutti gli indagati, dal sindaco in giù,  sono stati assolti, ndr) per la Procura, mi rende orgoglioso di aver impedito che l’Ospedale vecchio venisse trasformato in un albergo”.

Adesso a capo della Procura c’è Alfonso D’Avino. Il magistrato voleva andare a Reggio Emilia ma il Sistema di Luca Palamara lo dirottò a Parma.  Sperando che il cambio sia stato comunque di suo gradimento, il procuratore farebbe bene ad informarsi, anche solo per curiosità, su come sono state condotte le indagini in questi dieci anni da parte del suo ufficio.

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