Filippo Galli in libreria con “Il mio calcio eretico” – INTERVISTA

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(di Luca Savarese, da StadioTardini.it) – Una vita vissuta da dietro, tra le tempeste e le feste della terza linea, difensore centrale, testimone sul campo e fruitore sia della visionarietà copernicana di Arrigo Sacchi che della solidità kantiana di Fabio Capello.
Poi un salto alla Reggiana, un ottavo posto in A con il Brescia, quando le rondinelle avevano uno sparviero di nome Baggio.
Quindi l’esperienza in Premier League col Watford, allenato da Gianluca Vialli, prima di chiudere col calcio giocato a Sesto San Giovanni, con la Pro Sesto.

Di campioni ne ha visti e vissuti tanti, Filippo Galli, nato a Monza, il 19 maggio 1963. Poi, una volta appesi gli scarpini al chiodo, eccolo nella veste di allenatore e formatore dei campioni di domani. È qui che approfondisce conoscenze e coltiva metodologie, studia e si accorge che per essere davvero calciatore, occorrono varie componenti e che il solo aspetto tattico-atletico, non basta se non è arricchito e corroborato da altri saperi.

Ecco come s’incanala la sua eresia, la sua scelta, controcorrente rispetto ad un ambiente triturato dal “così fan tutti ” di mettere al centro del progetto il calciatore di domani, la persona, con tutte le sue pratiche di vita.

Da maggio 2021 è responsabile dell’area Metodologica del Parma Calcio. Un ruolo nuovo, all’interno dell’organigramma societario, che ha come obiettivo lo sviluppo e l’armonica l’interdisciplinarietà di tutte le figure professionali dedicate allo sviluppo dei giovani calciatori.
È così che è nato Il mio calcio eretico, dai trionfi col Milan al lavoro con i giovani, testo edito da Piemme e dal 16 aprile in tutte le librerie.

Lo abbiamo contattato mentre dall’auto stava andando a prendere la metro. In movimento, sempre. Diktat che del resto imponeva la lectio sacchiana. “L’eresia mia e dei mie colleghi prova a cambiare rotta dentro un calcio giovanile sempre un po’ restio ad evolvere. Che notte quando ad Atene fermai Romario e Stoichkov”

 

L’Alfa, il Milan che scopre conosce e vive, raggiungendo le vette in Italia e le cime in Europa, l’Omega, la sua azione tra i giovani come divulgatore di un modo integrale e non unilaterale di concepirsi e concepire il gioco più bello del mondo, in mezzo tante altre lettere e che lettere, la C come tre Coppe dalle grandi orecchie alzate al cielo (la terza, quella del 94 dove ad Atene zittisce i blaugrana Romario e Stoichkov) non proprio cosa da tutti i giorni. S come scudetti, 5, vinti, non proprio iter di tutti i giocatori.

Benvenuto, sulle colonne di StadioTardini.it a Fillippo Galli.

“Grazie a Voi per lo spazio e il tempo riservatomi…”

Il tuo primo approccio con un pallone?

Negli spazi verdi, molti di più nelle strade rispetto ad oggi; nei prati, nei cortili: approccio tipico per noi boomer, quando il calcio di strada era maestro…”

Nasci a Monza, ma non entri nelle giovanili monzesi bensì in quelle del Milan…

“Si non sono entrato lì, anche perché il mio percorso, fatto nel settore giovanile, fu inizialmente soprattutto a livello dilettantistico, nella città del paese dove son cresciuto, società Cosov Villasanta: Centro organizzazione sportiva oratorio Villasanta, poi giocai con la prima squadra in prima categoria. Arrivo al Milan, quasi a diciassette anni, molto avanti rispetto a molti miei coetanei..”

La pars construens,  gli anni che ti hanno visto fare, ma soprattutto essere, calciatore con Pescara, Milan, Reggiana Brescia, Watford e Pro Sesto..

“Si andai a Pescara in prestito, dalle giovanili del Milan, dalla C, gli abruzzesi puntavano a tornare in B. C’era un allenatore che per me fu come un padre, Tom Rosati, poi non mi sentivo pronto per il Milan, ma il Milan mi volle riprendere e fu la mia fortuna, perché iniziai la mia prima stagione con Castagner come allenatore, e poi quando la società, dopo l’era Farina, venne acquistata dalla Fininvest, con Silvio Berlusconi e tutti gli investimenti ,fui al posto giusto al momento giusto: feci parte di quei trionfi e di quel modo di ottenerli, perché proprio il modo in cui arrivarono, ha fatto sì che quella squadra e quel gruppo, rimanessero nella storia, un modo diverso di vincere proposto da Arrigo Sacchi, che aveva portato metodi nuovissimi nel mondo del calcio”.

Tu, anche questa cosa non è capitata a molti, hai vissuto sia l’edizione del Milan degli immortali, la visionarietà di Sacchi, che l’edizione degli invincibili, la solidità di Capello…

Due stili diversi, ma entrambi vincenti e magistrali. Ho giocato e vestito rossonero 14 stagioni, da quella 1983-84, fino all’ inizio della stagione 1996-97, quando andai alla Reggiana, già ultima e che poi retrocedette. Arrivò Tabarez da noi, non fu facile per me lasciare quei colori, avevo deciso di lasciare, con tristezza, il club per cui avevo sempre tifato, oltre ad averci giocato, non fu facile fare quella scelta, ma fu doverosa, lasciavo un ambiente che consideravo e considero la mia seconda casa”.

Ecco dunque la tua pars destruens, il secondo tempo, dove prende corpo, alla maniera dell’eretico Savonarola, la tua eresia, la tua scelta di dedicarti alla crescita dei giovani, cercando, però, di combattere una sempre più diffusa proliferazione di macchine da guerra, per dare il là ad una ricomprensione ed una visione d’insieme della persona dei giovani calciatori?

“È una lettura che mi piace anche questa: il calcio è una prestazione calcistica, non una prestazione atletica. Sono importanti tutte le componenti: tecnica, tattica, fisica, emotiva, psicologica, vanno tenute e prese insieme, non possiamo pensare di suddividerle, non possiamo scinderle. Mi hanno fatto crescere incontri con persone che mi hanno permesso di vedere il calcio secondo paradigmi differenti. Caterina Gozzoli, professoressa all’Università Cattolica di Milano e Brescia, Edgardo Zanoli e Domenico Gualtieri, i miei colleghi di lavoro, come li chiamo. Abbiamo provato a ripensare quello che nel calcio, soprattutto giovanile, viene definito come un sapere per sempre, restio ad evolvere, restio a guardare ad altro. Essere eretico, termine forte, è abbracciare la possibilità di un cambiamento, non per forza, dopo averlo teorizzato, studiato, vissuto, sperimentato; la competenza nasce dalla conoscenza e dall’ esperienza, andare a ri-teorizzare quello che abbiamo appreso”.

In fondo anche Platone ed Isocrate sostenevano, nell’antica Grecia, un’educazione sportiva circolare, dove il corpo potesse crescere in armonia con altro, con la musica per esempio. Sono dunque utili le scienze ausiliarie, per dribblare quel prestazionismo, che oggi va per la maggiore?

Si esattamente: tra l’altro l’implementazione di questo modo di lavorare, coincise con quando al Milan ci fu la crisi, che in greco significa anche opportunità, quando la società decise, nell’estate del 2012, di cambiare rotta e politica di investimenti, non più giocatori di prima fascia in prima squadra, ecco le cessioni di Ibra e Thiago Silva e non si potevano più accasare giovani dopo l’Under 15. Questo ci ha permesso di andare a lavorare a fondo sugli aspetti metodologici, non grossi investimenti, ma fare con quello che si aveva in casa, conoscere altri atrii, metodologie di quelli che erano competitor col Milan, ma che avevano tanti giovani in prima squadra prodotti dai rispettivi settori giovanili.
Imparai
altri procedimenti, nuovi sguardi per costruire, insieme alle figure adulte, una metodologia nostra, consapevoli che il giocatore venga preso in una dimensione non riduzionista che divida il tutto, ma sistemica.
Ecco l’esigenza di lavorare sul gioco come
maestro, e gli accompagnatori sono gli allenatori e tutte le figure professionali, nella nostra visione, sono tutti allenatori: a me non interessa uno psicologo che sia un clinico, ma che conosca il calcio e riesca a capire cosa affronta un bambino o un ragazzo quando gli viene detto di giocare in un certo modo e dentro una competitività anche accesa. A me non interessa che un preparatore atletico faccia raggiungere picchi di velocità, ma che la velocità del giocatore aiuti a risolvere i problemi di gioco. E’ una visione differente e si scontra un po’ con il mainstream….

Oggi tra i giovani c’è forse anche meno desiderio di mimesis, si perde meno tempo ad imitare i propri miti, a stare dietro ad altri che si ammirano, a fronte di un individualismo sfrenato?

“Si l’individualismo non basta, il talento non basta in sé stesso, ha bisogno dell’altro e degli altri. Occorre una collaborazione, un gioco collaborativo, corale, perché il talento venga fuori, educare, e de-ducere, tirare fuori; nel momento in cui il talento è in difficoltà, se ha costruito legami, relazioni, gli altri lo possono aiutare, altrimenti, il talento, rischia di perdersi, di non mostrarsi fino in fondo…”.

Ma Romario e Stoichkov ti sognano ancora la notte?

Non credo che abbiano questo tipo di problemi (se la ride…), però quella notte fu bellissima, fu la mia prima finale intera, che giocai dall’inizio e non da subentrato come contro Steaua e Benfica e non potevo sbagliare, fu anche la serata che mi consacrò e la ricordo sempre in modo particolare”.

Se fossero dei libri, che libri sarebbero Gullit, Rijkaard e Van Basten?

“Eh bella domanda: forse dei libri di Herman Hesse, Narciso e Boccadoro, mi verrebbe da dire. A me piace Don Chisciotte, ma si addice forse più a me che a loro…”

Invece te l’aspettavi una biblioteca di Carlo Ancelotti, così piena di Coppe?

Con Carlo abbiamo finito di giocare insieme: io ho avuto l’onore di seguirlo e lavorare con lui al suo ultimo anno di Milan, nel 2008, prima di diventare responsabile del settore giovanile, per me fu come andare all’università, al di la delle conoscenze tattiche, ha una capacità empatica unica, di ottenere, il meglio dagli altri, relazionarsi, capire uno, che non è buonismo, perché è uno che quando c’è da alzare la voce la alza, è molto abile a capire, fino in fondo, chi ha di fronte”.

Come si fa oggi a non essere ragazzi supinamente dogmatici, ma audacemente eretici ?

Consigli è sempre difficile darli, facciamo fatica, da genitori. Credo sia fondamentale pensare che l’altro sia una risorsa e non pensare sempre di far tutto da sé. È interessante aiutare e poi saper togliere l’aiuto. Mi piace sempre, a tal proposito, riportare una frase di Marcelo Bielsa: una squadra è tanto più forte almeno dal punto di vista emotivo, quando capisce l’importanza di difendere l’anello più debole”.

Filippo Galli. Uno che ha sempre marcato (ed a uomo) e marca ancora, la banalità… Luca Savarese (da StadioTardini.it)

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