Pantaloni scuri, polo azzurra, sguardo basso e baffi foltissimi. Sono esattamente le 9,56 di stamattina quando Shabbar Abbas, scortato da sei agenti della polizia penitenziaria, entra nell’aula della Corte d’Assise di Reggio Emilia per prendere parte per la prima volta in presenza – dopo l’estradizione dal Pakistan in Italia avvenuta una settimana fa – al processo per l’omicidio della figlia 18enne Saman.
L’uomo, imputato assieme allo zio della ragazza Danish Hasnain e dei cugini Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz (oltre alla madre Nazia Shaheen, ancora latitante), si è seduto in mezzo ai legali Enrico Della Capanna e Simone Servillo. Dietro di lui, un interprete. Subito dopo Cristina Beretti, presidente della corte dei giudici con giuria popolare, ha chiesto a Shabbar se acconsentisse ad essere ripresa dalle telecamere e dai media presenti.
Ma l’imputato ha negato il permesso. L’udienza del processo che è ripreso dopo la sosta estiva, è in corso.
In apertura, la richiesta dei legali di Shabbar di riascoltare alcuni testi di polizia giudiziaria già sentiti quando però la posizione di Shabbar era stata stralciata (poi riammessa dopo l’arresto in Pakistan).
«Shabbar ha riferito che quando è stato arrestato in Pakistan, la moglie si trovava in casa». Lo hanno Enrico Della Capanna e Simone Servillo, avvocati difensori di Shabbar, a margine dell’udienza del processo in corso a Reggio Emilia per l’omicidio della 18enne Saman Abbas rispondendo ai giornalisti che chiedevano se Shabbar avesse notizie sulla moglie Nazia Shaheen, ancora latitante.