Pasimafi, Volume III – Da “Camici Sporchi” al suicido di Loris Borghi: le indagini finite in niente di Nas e Procura di Parma quanto male hanno fatto?

Dal suicidio di Carlo Marcelletti a quello di Sabatino Trotta": stillicidio e lunga scia di sangue per accuse infamanti e false ma difficili da reggere

0
La conferenza stampa dopo gli arresti di "Pasimafi"

Quando viene consegnato alla stampa dalla Procura o dalla Polizia Giudiziaria un “Mostro”, è corsa delle testate al titolo più altisonante, più accattivante, più greve, più tira click. Allo strillo più grande e pesante.

E’ umano. Non ti fermi a dubitare delle informazioni ufficiali. Lo sono. Vuoi raccontare, urlare al mondo attestati di colpevolezza di cui nemmeno sei consapevole e di cui non hai alcuna prova in mano. Ma non dubiti di chi ti fornisce le informazioni.

Credi sia giusto strillare al lettore quello che ritieni di aver appena scoperto – magari condendolo con malcelati affermazioni di compatimento e sdegno per il “mostro”.

Ma la persona che butti in prima pagina, come la vive? Ha una famiglia, una sua vita? Dei figli che vanno a scuola, delle mogli che devono fare la spesa che ne rimane? Cosa si prova a stare in prima pagina da “Mostro”?

E se le accuse risultassero infondate, che succede? Chiedere scusa è complesso. Le scuse sono pallose, non fanno letture, non fanno titolo, non meritano la prima pagina, ma un trafiletto misero, magari sotto i necrologi, quell’ultima vetrina dove finisce chi non regge l’infamia. Che fare , allora, con colui con il quale non puoi nemmeno scusarti, per la calunnia, perché non l’ha retta?

Ok.

No, non è il testamento paranoico e morrisoniano di un nerista pentito, ma solo una riflessione sul male che inchieste gonfiate e sbandierate possono avere su chi le “subisce”. Sul soggetto, all’improvviso anche complemento oggetto e fantoccio passivo di una vita in cui non si riconosce. Solo foto di solitudini in cui ti trovi quando il mondo ti volta le spalle, e se non lo fa lui lo fai tu, per quella vergogna che ti rode da dentro e ti porta a isolarti. A fuggire da tutto. A volte, a ucciderti.

Nei primi due volumi sui lati molto oscuri dell’inchiesta Pasimafi (leggi qui e qui) ci siamo occupati delle assoluzioni, di quei nomi e volti, persone e famiglie depredate di dignità, professionalità e lavoro, poi assolte nel silenzio. 

Ma che segni ha lasciato sulla famiglia Grondelli, essere stati massacrati, quasi perseguitati da inchieste amministrative parallele, essere presi a sassate davanti al Tribunale, insultati, con le intere famiglie guardate con disprezzo e cattiveria? Leggere “la vita dorata dei Grondelli” in prima pagina, come se il lavoro fosse un optional a beneficio chissà quale lusso? Scoprire dai giornali di aver messo a disposizione al Prof. Fanelli il famoso yacht Pasimafi, che ha dato il nome all’inchiesta, ma che in realtà nulla aveva a che vedere con loro? Vedere pubblicato il proprio indirizzo di casa quale indiretto invito a continuare il loro pestaggio? Preferiscono non commentare, con un cortese, telegrafico, “no comment, grazie”.

Dei segni invece che ha lasciato sulla carriere e la vita del Prof. Guido Fanelli, primario di indubbia fama, medico all’avanguardia e pioniere nel suo campo, parleremo poi.

Vogliamo occuparci invece del caso di Loris Borghi. Dottore, Professore, Chiarissimo rettore dell’Università di Parma. Medico emerito, Uomo stimato.  L’inchiesta Pasimafi lo ha travolto.  Con quella forza devastante degli tsunami. 

Secondo l’ipotesi di accusa Borghi aveva agevolato la vittoria nei concorsi interni di alcuni protetti del dottor Fanelli: non riportiamo i nomi per non rivangare situazioni che già sono fin troppo note.  Situazione simile aveva comportato per lui un altro avviso di garanzia, sempre per abuso d’ufficio, per la vicenda della nomina di Tiziana Meschi a capo del reparto di Medicina interna e Lungodegenza critica, oltre che alla guida del Dipartimento geriatrico, che da oltre un anno è il pilastro portante della lotta al Covid-19 presso il “Barbieri” per tutta la nostra provincia e oltre.

In questo caso la Procura di Parma aveva inoltrato anche la richiesta di rinvio a giudizio, da qui la decisione di lasciare la guida dell’Ateneo, ma rivendicando la propria onestà.  «Non ho mai rubato un euro – aveva scritto nella lettera di commiato -. Mi sono sempre comportato come un servitore dello Stato, ovunque sono arrivato ho cercato di migliorare le cose e di aiutare, in trasparenza e legittimità, le persone meritevoli, nella ferma convinzione che le persone sono il cardine e la vera forza di successo di una struttura pubblica o privata che sia».

Una lettera forte e violenta quella con cui si era congedato, non per salvare se stesso, ma l’onore dell’Università. Poi non ha retto, Loris Borghi, il peso dell’infamia, della calunnia della crudeltà e della solitudine, scegliendo di togliersi la vita. Una morte indotta, voluta, violenta. Si è imbottito di psicofarmaci, poi inflitto un taglio alle braccia: lui, medico, deve aver fatto i conti per quanto tempo i suoi occhi avrebbero continuato a fissare quel cumulo di detriti, quanti treni avrebbero sentito sfrecciare le sue orecchie, sotto quel cavalcavia di Baganzola, prima che il suo corpo cedesse.

Sulla sua morte, ancora senza colpevoli, fu aperto un fascicolo per istigazione al suicidio (contro ignoti) e uno per rivelazione del segreto d’ufficio contro l’ex Procuratore di Parma Antonio Rustico, ormai anche egli deceduto, Lui, sicuramenti sì, per cause naturali.

Abbiamo voluto affidare il suo ricordo all’amico e legale, il Professor Paolo Veneziani. L’illustre docente e legale, ci ha confidato come ancora il ricordo dell’amico gli susciti dolore e rimpianto, ricordando e ribadendo, come già detto all’epoca dei fatti “che il Professor Borghi non c’entrava nulla e che era stata da poco depositata una memoria difensiva, appena dopo la chiusura delle indagini, chiarendo la correttezza dell’operato dell’ex Rettore. Secondo me si trattava di una contestazione infondata e destinata a cadere. Il Prof. Borghi aveva agito, anche in quell’occasione, nell’interesse dell’Ateneo, come già del resto egli aveva detto e scritto nel rassegnare le sue dimissioni: parole che credo sia utile rileggere allora e anche oggi. Ricordo il Professor Borghi come persona di grande valore e capacità, sia dal punto di vista professionale che umano”.

Ancora più netta, la posizione del Nuovo Rettore dell’Università, Paolo Andrei, che ha parlato di vita umana oltraggiata: “Lo ricordo con tantissimo affetto per lo spessore umano e per le capacità professionali che ha sempre dimostrato, oltre a essergli profondamente riconoscente per la stima di cui mi ha onorato. Una vita umana si è spezzata, e non per cause accidentali o naturali: tra le ragioni che hanno portato a questo gesto estremo c’è stato sicuramente anche il senso di abbandono che lo ha pervaso a seguito dell’indifferenza dei molti che, dopo le sue dimissioni dalla carica di Rettore, lo hanno dimenticato e, talvolta, oltraggiato. Tutto ciò deve farci riflettere, deve fare riflettere ciascuno di noi, perché interpella la nostra coscienza individuale e collettiva”.

Ma Loris Borghi non è l’unico cadavere nell’armadio di indagini sommarie, provvisorie e forse superficiali. 

Di poche settimane fa, il suicidio in carcere a Vasto di Sabatino Trotta:  psichiatra pescarese, 55 anni,  legato da stretti rapporti di parentela con Monsignor Iannucci, per quarant’anni Vescovo di Pescara, attivo nel volontariato cattolico, presidente di una Onlus sulla salute mentale. Trotta era finito in carcere poche ore prima nell’ambito di una indagine su presunta corruzione in un appalto sanitario.  Accuse non provate, ma sbandierate dalla Procura con la violenza di un bazooka: basta dare un’occhiata sui giornali locali per trovare le intercettazioni delle telefonate del medico con il gioielliere di fiducia per Rolex e regali a presunte amanti. Quattro donne, i cui nomi sono anch’essi stati gettati al pubblico ludibrio, senza un minimo di delicatezza, di concessione di privacy e dignità a loro e alla famiglia del professionista già finita dentro lo tsunami. 

Più indietro negli anni, la morte di Carlo Marcelletti. Cardiochirurgo pediatrico, primo in Italia a effettuare il trapianto di cuore su un bambino, 25mila bambini curati, 10mila operati. Ma nel 2009, la fine di tutto. Era accusato dalla procura di Palermo di farsi dare i soldi per favorire i genitori dei bambini che dovevano essere operati: denaro per garantire una corsia privilegiata. 

In tutto gli venivano contestati 5000 euro. Sommati con quelli che rientravano nel capitolo truffa, ventimila euro. Troppo poco, paragonato al suo successo. L’accusa più infamante, pedofilia. Il cardiochirurgo, 64enne, ammise di aver avuto uno scambio di messaggi hard con la figlia tredicenne di una sua amante, ma nulla di più. 

Il processo non si tenne mai, perché Marcelletti si tolse la vita in ospedale, dove era tornato a lavorare, ingurgitando medicine per il cuore fino a farselo fermare. 

Una commovente fiaccolata di centinaia di amici, colleghi, pazienti e persone che avevano avuto a che fare con lui, dopo la sua morte lo ha ricordato davanti all’Ospedale.

Probabilmente il processo lo avrebbe scagionato, ma non avrebbe pulito da tutto quello schifo che gli era stato gettato addosso. Per il pubblico, per l’opinione comune, sarebbe sempre stato colpevole. Bastava l’arresto per cancellare anni di studio, carriera, duro lavoro.

Un libro di Alessandro Piperno ha raccontato la vicenda, cercando di ridonare dignità a Marcelletti.

Ma torniamo a indagini geograficamente più vicine a noi, gestite e giostrate dai NAS di Parma. Siamo nel 2012, l’Inchiesta si chiama “Camici Sporchi”. 

Inizia tutto la mattina del 9 Novembre: perquisizioni, quasi 70 persone indagate, 12 aziende coinvolte, e una serie di accuse che vanno dall’associazione a delinquere alla corruzione. 

Uno scandalo di malasanità al Policlinico di Modena, un’inchiesta che secondo chi la porta avanti fai storia e giurisprudenza.  150 carabinieri del NAS di Parma e di 10 Regioni (e noi paghiamo!!!) arrestano 9 cardiologi impiegati a Modena. Su ordine della Procura di Modena, i militari effettuano 33 perquisizioni e applicano la misura di divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione per 12 aziende, di cui la metà straniere, che producono attrezzature sanitarie e l’interdizione dall’esercizio di attività e professioni nei confronti di 7 persone.

Nel mirino dell’inchiesta sperimentazioni cliniche su pazianti ignari, eseguite fuori da ogni autorizzazione, e con l’utilizzo abusivo di attrezzature sanitarie non autorizzate. La spesa inoltre avrebbe gravato indebitamente sul servizio sanitario pubblico. 

Gli arrestati sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere, peculato, corruzione, falso in atto pubblico, truffa ai danni del S.S.N., sperimentazioni cliniche senza autorizzazione.

Secondo gli inquirenti il cardine dell’organizzazione sarebbe Giuseppe Sangiorgi, emodinamista .  In arresto anche: Maria Grazia Modena all’epoca dei fatti medico responsabile della struttura complessa di Cardiologia del Policlinico; Vincenzo Luigi Politi, medico di 34 anni in servizio al reparto di Cardiologia; Alessandro Aprile, di 37 anni, in servizio al Policlinico all’epoca dei fatti, ma oggi a Pieve di Coriano; Simona Lambertini, 38 anni coordinatrice della “clinical research”, assegnista di ricerca; Giuseppe Biondi Zoccai di 38 anni, all’epoca dei fatti medico presso il reparto di Cardiologia; Fabrizio Clementi, di 41 anni, medico in servizio presso il reparto Cardiologia di Tor Vergata; Alessandro Mauriello, di 54 anni, professore associato di Anatomia patologica e medico al reparto di Anatomia patologica al Policlinico Tor Vergata di Roma; Andrea Amato, di 36 anni, all’epoca dei fatti medico frequentatore di master a Cardiologia di Modena.

Volete sapere come è finita? Il nove novembre 2020, esattamente otto anni dopo, tutti gli imputati sono stati definitivamente assolti. Chi in primo grado, chi in appello. Tutte le accuse sono cadute. 

Ma chi ha ridato dignità e professionalità a medici demoliti dalla falce della giustizia sommaria? Chi mai gliela ridarà? NESSUNO. Non c’è assoluzione dalla scure del giudizio. 

Il caso della Professoressa Modena – Una menzione particolare la merita il caso della Professoressa Maria Grazia Modena, ex primario della  Cardiologia del Policlinico di Modena. Donna bellissima, empatica e bravissima nel proprio lavoro, prima “femmina” a dirigere la Società Italiana di Cardiologia. Studiosa e medico esemplare.

A quasi sei anni dall’inizio dell’incubo, ogni accusa rivolta verso l’ex primario è caduta. “Assolta perché i fatti non sussistono”. Nei suoi confronti la magistratura modenese aveva mosso delle accuse pesantissime: associazione a delinquere, truffa al sistema sanitario nazionale, corruzione (finalizzata all’accrescimento del prestigio e non all’ottenimento di denaro), abuso d’ufficio e falso.

Presunti reati che nel febbraio del 2015, davanti al gup Andrea Romito, avevano portato alla condanna a quattro anni, con il rito abbreviato, della professoressa, interdetta dai pubblici uffici per cinque anni. La professionista, ribadendo sin dal primo giorno la propria totale estraneità ai fatti ha scelto il rito abbreviato, con la volontà di accorciare i tempi del giudizio. 

Nel dicembre dell’anno successivo, i giudici della Corte d’Appello di Bologna cestinano quasi completamente la condanna in primo grado nei confronti della Modena: da quattro anni si passa ai soli otto mesi, rimasti, appunto, per l’unica accusa di falso. 

Le motivazioni dell’Appello? ATTENZIONE: si parla di assenza totale di prove e possibile inattendibilità delle dichiarazioni di Rosario Rossi, il principale accusatore della cardiologa. Ad avvenuta sentenza di secondo grado, la Professore si è rivolta alla Cassazione nella volontà di cancellare anche quella condanna ad otto mesi: così è stato.

La Corte di Cassazione le ha dato definitivamente ragione, “perché il fatto non sussiste” assolvendola completamente da ogni accusa.

Benissimo. Tutti felici, direte voi? No, perché l’assoluzione non ti restituisce la vita, i posti di lavoro, la faccia che ti sono stati strappati. Non rimargina ferite, non rimette tutto al suo posto. 

Il dramma processuale, per metabolizzarlo e sopportarlo, per non cedere sotto il peso dell’ingiuria, Maria Grazia Modena lo ha convogliato in due volumi pieni di tutto.

Passione, per il proprio lavoro. Fiducia, nella vita e nella giustizia. Amore, per la propria famiglia e i tanto adorati pazienti. Speranza, nonostante un dolore atroce. Si chiamano “Il Caso Cardiologia la mia vita la mia verità” e “Il Caso Cardiologia…La Verità”. 

Fortunatamente, a differenza del povero Loris Borghi, Maria Grazia Modena ha retto il tormento del tritacarne e della gogna. E sarà nostro grande piacere incontrarla, per farci raccontare da lei, i suoi libri. E il dolore, la solitudine, di chi viene infamato senza aver fatto nulla, solo per la fame di carriera di chi lancia accuse e comanda arresti.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here