Riscossione tasse e multe, Parma in cima alle classifiche. Male nelle tariffe

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Parma è 14esima in Italia nella classifica delle città virtuose per la riscossione delle imposte, ma 54esima nel settore tariffe, le entrate da servizi pubblici come nidi, trasporti e cessione di beni comunali. Quindicesima, invece, nel capitolo multe. Lo stabilisce una classifica del Sole 24 Ore relativa al 2015.

La percentuale di riscossioni delle imposte (Imu, Tasi, Irpef e assimilati) di Parma, 14esima, è dell’85,2% riscosso: su 125,3 milioni accertati, 106,8 riscossi.

Per quanto riguarda la tariffe, entrate da servizi pubblici, asili nido, trasporti e cessione di beni dell’ente, Parma vanta una percentuale del 69,4% di riscosso: 24,9 i miioni dovuti, 17,3 quelli ottenuti.

Capitolo multe, Parma è invece 15esima: su 22,7 milioni accertati nelle casse comunali ne sono finiti 15,8.   

Le altre città e il rischio default – A Napoli la Corte dei conti ha appena calcolato che nel 2016 il Comune è riuscito a recuperare solo l’1,75% delle entrate scritte nei bilanci degli anni precedenti ma non incassate. Con questa «strutturale incapacità di riscossione», dicono i magistrati, non si va lontano: e senza un cambio di rotta immediato, da dettagliare entro metà dicembre, sarà dissesto.

A Roma l’anno scorso è entrato davvero in cassa solo un quarto delle multe imposte dal Comune per combattere la fretta degli automobilisti o le manie espansive dei tavolini di bar e ristoranti; per strada si è persa poi la metà di canoni e tariffe, dalle rette degli asili nido al trasporto scolastico. Con numeri di questo tipo, e con il maxi-credito vantato nei confronti di Atac ora al bivio fra la proposta di concordato all’esame del Tribunale e il fallimento, i conti rischiano sul serio.

Parallela la vicenda di Torino, dove cambia il nome dell’azienda di trasporti (Gtt) ma non la possibilità che un suo default trascini nel baratro il Comune per l’effetto a catena dei crediti che cadono: il tutto mentre la magistratura ha contestato a sindaca e assessore al bilancio un falso ideologico, versione pubblica del falso in bilancio, sui 5 milioni di euro non restituiti a Ream, la società che ha acquisito la prelazione su un’area poi andata ad altri dove dovrebbe sorgere il nuovo centro congressi della città.

E da Messina, eternamente alle prese con il piano anti-dissesto sotto esame e da anni senza certificati consuntivi, a Palermo, dove gli allarmi della magistratura contabile sono stati molti, l’elenco delle città in bilico si allunga; in una regione che ha appena visto saltare i conti di due scrigni del barocco come Modica (55mila abitanti) e Monreale (39mila).

Dopo un lungo silenzio, i “fallimenti” comunali hanno ripreso a manifestarsi; ma ora la loro ombra non si aggira più solo negli enti medio-piccoli, e bussa alle porte di grandi città, dai piedi delle Alpi allo Stretto. Con conseguenze politiche pesanti, come mostra il lavorio intorno a manovra e decreto fiscale per salvare Torino (dirottando su Gtt 40 di milioni di fondi di coesione per non far fallire l’azienda ed evitare l’effetto domino su Palazzo di Città) e per non far capitolare Napoli in vista della bocciatura definitiva .

A spiegare il problema non sono tagli aggressivi o i vincoli del Patto di stabilità, entrambi usciti dalla scena della finanza locale. Nel complesso, anzi, il comparto dei Comuni mostra segni di buona salute, come indicano la discesa del debito registrata da Bankitalia e la ripresa degli investimenti certificata venerdì dall’Istat. Ogni città ha una storia a sé, ma dove i conti ballano c’è una malattia comune: gli inciampi della riscossione, che non riesce a portare nelle casse i soldi su cui si basa la capacità di spesa degli enti.

I grafici in queste pagine mostrano la capacità di ogni capoluogo di incassare nell’anno le entrate «accertate» a consuntivo, e quindi dovute (non si tratta di previsioni). Una quota di ritardo è fisiologica, per esempio per le multe che arrivano a dicembre e sono pagate l’anno dopo, ma i numeri qui accanto sono spesso da patologia. Proprio le multe sono la voce più critica: nel 2016 le città hanno scritto verbali per 1,7 miliardi, e ricevuto pagamenti per 599 milioni (il 35,1%).

Anche tariffe e canoni faticano a presentarsi puntuali (manca un euro su tre); un po’ più stabile è il quadro dei tributi, almeno dove le riscossioni di competenza superano l’80%, perché una quota dei ritardi è dovuta al calendario dei pagamenti dell’addizionale o della Tari. In media un euro su quattro non arriva entro fine anno, ma in casi come Napoli o Reggio Calabria l’indice scende di molto (a Vicenza invece il dato dipende solo dalla Tari riscossa tutta in conto residui).

Quello che non entra in cassa si trasforma in un arretrato (i «residui attivi»), nella speranza di essere recuperato negli anni successivi. Ma qui si nasconde il virus dei conti, come mostra la riforma dei bilanci. Le nuove regole hanno imposto ai sindaci di cancellare le vecchie entrate ormai impossibili da incassare: una pulizia straordinaria che ha fatto uscire dai bilanci la bellezza di 29,3 miliardi di arretrati (lo calcola la Ragioneria generale, che misura in 30,9 miliardi i «residui» ancora nei conti), aprendo un extra-deficit che una norma ponte permette di ripianare in 30 anni

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