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Lo sfogo – Fuori da Pasimafi: la violenza e la macchina del tempo (che non c’e)

“Sono un imprenditore uscito dal processo “Pasimafi”, totalmente assolto dopo cinque anni, e questa è la mia testimonianza. Non avrò raggiunto il mio obiettivo se a qualcuno suonerà come una lettera di recriminazione o di accusa, perché il mio principale sentimento, a poche settimane dalla fine dell’incubo – con l’ultima sentenza di assoluzione – è soprattutto la gratitudine.

Non posso che essere grato nei confronti di chi mi ha aiutato a superare questa prova, ingiusta e quindi ancora più difficile e dolorosa: il mio socio e i miei più stretti collaboratori che hanno continuato a credere in me, i clienti che sono rimasti, e non da ultimo i miei avvocati Luca Finocchiaro e Domenico Radice, che non si sono limitati a difendermi, ma si sono messi nei miei panni, facendomi sentire sostenuto e compreso fino in fondo.

Impropriamente si suole definire “macchina del fango” quel meccanismo perverso innescato dal clamore suscitato da una vasta indagine – come “Pasimafi” – e dal voyeurismo meschino di certa stampa, e lo dico da giornalista che tra l’altro ha ricoperto la carica di Consigliere nazionale dell’Ordine. Non è una macchina del fango, ma solo una macchina rotta. Un sistema di garanzie che non riesce ad assolvere al suo compito. Per gli indagati come me, quel meccanismo assomiglia molto a una macchina del tempo, per quanto impazzita. Del resto la mia condanna è iniziata quell’8 maggio del 2017: non certo con una sentenza o un rinvio a giudizio, ma con una conferenza stampa, e da allora il tempo ha iniziato a scorrere a ritroso, fino all’assoluzione di questi giorni,momento in cui mi è stata restituita non sola la mia dignità, ma la mia stessa innocenza, che durante l’indagine è stata messa totalmente fra parentesi, con buona pace dei principi costituzionali. Solo che la macchina del tempo purtroppo non esiste – esistono solo macchine rotte… – e nessuno mi potrà mai ridare questi cinque anni di vita sospesa: di clienti persi, di reputazione ferita, di sguardi sospettosi, di maldicenze, di fatturato e posti di lavoro andati in fumo. 

Gli antichi romani, padri del diritto, dicevano “summum ius summa iniuria”: più importante è il diritto violato più grave è l’ingiustizia. Io aggiungerei – dopo averlo provato sulla mia pelle – che al giorno d’oggi, nel nostro Paese, il processo penale rischia di minare in un innocente la fiducia nello Stato di diritto, in quel sistema di pesi e contrappesi – incluso il giusto processo – al quale abbiamo affidato ogni nostra certezza e al quale sottomettiamo i nostri diritti, finanche la nostra libertà.

Avevo sempre considerato questa espressione poco più che una metafora, finché non ho sentito quella forza rivolgersi ingiustamente contro di me: il mio nome buttato su tutti i giornali, conversazioni private per sempre pubblicate in rete, che difficilmente saranno cancellate, con buona pace del diritto all’oblio.

In unepoca di massima tutela dell’identità e dell’autodeterminazione, con un concetto di “Io” che correttamente è esteso alla presenza dell’individuo in rete, essere archiviati da un’indagine pubblica o assolti all’esito di unprocesso significa dover convivere per anni con un’identità del tutto falsa, eterodeterminata, che continuerà a condizionare le tue relazioni e mi dispiace doverlo ammettere a minare la certezza che gli altri sappiano andare al di là di qualche ritaglio di giornale, magari online, e sappiano vederti per quello che realmente sei sempre stato!!!

Quella forza legittima, perché delegata da tutti noi, può quindi trasformarsi in violenza cieca. E se ciò accade, la responsabilità non può che essere di tutti noi che siamo assuefatti a questo stato di cose. Perché le ferite più profonde, sin dall’immediatezza dell’apertura di un’indagine, sono inferte da conferenze stampa affrettate e fin troppo disinvolte, dalla superficialità della stampa – sovente alimentata anche da documenti riservati che non dovrebbe avere… -, dalle policy delle grandi aziende – che interrompono le commesse, risolvono contratti e mettono al bando persone e società -, per non parlare del cinismo delle banche, che al pari delle corti dei tiranni del tardo impero, alimentano le loro liste di proscrizione – oggi si chiamano “black list” – a partire dai rumores pubblicati sui giornali. 

Finché la coscienza civile non maturerà il giusto sdegno per questa enorme violazione di ogni principio di civiltà giuridica – che lo ripeto, non può e non deve essere imputata esclusivamente ai meccanismi e ai tempi del processo penale – il diritto nel nostro Paese continuerà a essere una fragile petizione di principio; l’innocenza poco più che un colpo di fortuna; e la tendenza al sotterfugio, alla scorciatoia, alla violazione della legge – esecrabilmente, ma coerentemente – resteranno inclinazioni diffuse, osservate col sorriso, spesso persino tristemente approvate come caratteri ineluttabili di una certa “italianità”. Sono invece sorrisi, condiscendenze, mancate indignazioni, che nascondono la più feroce delle violenze. 

È questa la mia tardiva testimonianza, o se volete la più sofferta delle confessioni: anch’io ho dovuto subire l’ingiustizia, per poterla riconoscere. E per questa responsabilità collettiva, alla quale tutti ci siamo un po’ sottratti, vorrei che nessuno si sentisse innocente”.

Massimo Cherubini