Straordinari non pagati: Poste Italiane condannata a risarcire postina parmigiana

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Quasi seimila euro, (5.772,00 euro più contributi e spese legali): tanto dovrà rifondere Poste Italiane a una porta lettere in servizio a Parma per gli straordinari non pagati.

E’ uno tra i primi casi in Italia di condanna, da parte del Giudice del lavoro, alle Poste, per vertenze di questo tipo.

La donna, costretta a straordinari sotto la supervisione del proprio capo ufficio dopo la riduzione da parte di Poste Italiane dei dipendenti, e la scelta di consegnare la posta a giorni alterni, si è rivolta alla Confsal, sindacato autonomo dei lavoratori, per vedersi riconosciuto il pagamento degli straordinari.

Oltre 430 ore, e la postina ha vinto, nonostante l’ente abbia provato a difendersi affermando di non aver mai autorizzato quel lavoro in più: ora sarà costretto a rifonderle quasi seimila euro per le ore extra lavorate, più i contributi, poco meno di 2.600,00 euro, e le spese legali, 2.700,00 euro.

In merito al pagamento delle prestazioni straordinarie anche in assenza di ordini scritti, in un’analoga situazione, si era già espressa la Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con sentenza del  18-05-2007 n. 11629, in cui si afferma che compete il pagamento degli straordinari (anche qui a favore di dipendenti postali) anche in assenza di ordini scritti poiché è stato dimostrato che Poste Italiane ne era a conoscenza e quindi tacitamente approvati.
Ecco alcune delle sentenze precedenti, analoghe, segnalateci dal nostro lettore Enzo.
 – –  Cass. civ. Sez. lavoro, 18-05-2007, n. 11629

Svolgimento del processo

Con distinti ricorsi depositati in data 7 agosto 2001 la s.p.a. Poste Italiane proponeva appello avverso le sentenze emesse il 21 giugno 2001 dal giudice del lavoro del Tribunale di Agrigento che aveva condannato la s.p.a. Poste Italiane a favore di A.R., di A.A. e degli altri lavoratori in epigrafe al pagamento del corrispettivo per le ore di lavoro straordinario dagli stessi prestato.

Dopo la ricostituzione del contraddittorio, la Corte d’appello di Palermo con sentenza del 1 ottobre 2003 rigettava il gravame e condannava la società al pagamento delle ulteriori spese del giudizio.

Nel pervenire a tale conclusione la Corte territoriale premetteva che alcuni dei motivi spiegati nel corso del giudizio di appello non potevano essere esaminati perchè non contenuti nell’atto introduttivo del giudizio di gravame.

Passando all’esame degli altri motivi il giudice di appello riteneva che la censura riguardante il riconoscimento dello straordinario richiesto dai lavoratori non poteva trovare accoglimento atteso che doveva ritenersi provato, contrariamente a quanto sostenuto dalla suddetta società, che la stessa fosse consapevole ed avesse in concreto autorizzato, come richiesto dalla contrattazione collettiva, lo svolgimento dello straordinario dei propri autisti.

Verso tale conclusione facevano propendere l’ampiezza del fenomeno, che aveva interessato un numero significativo di addetti ad un servizio di notevole importanza e per un periodo di tempo lungo – si da non potere sfuggire alla conoscenza della società – nonchè la regolare registrazione dei tempi di lavoro svolti nella apposita documentazione tenuta dalla società.

Non poteva, infine, trovare ingresso nel giudizio la censura con la quale veniva denunziata l’erroneità della consulenza d’ufficio perchè il motivo avente tale oggetto risultava privo della necessaria specificità e non consentiva, conseguentemente, di inficiare la validità della impugnata decisione.

Avverso tale decisione la s.p.a. Poste Italiana propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.

Resistono con controricorso A.R. e gli altri litisconsorti in epigrafe.

Motivi della decisione

Con i quattro motivi di ricorso la società denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.; violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in relazione agli artt. 9, 12, 69 e 72 del c.c.n.l – del 26 novembre 1994; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.. Più specificatamente deduce che infondatamente il giudice d’appello ha reputato inammissibili le deduzioni svolte dal difensore di essa ricorrente (subentrato nel giudizio d’appello al precedente patrocinatore collocato a riposo), atteso che era incontroverso che i lavoratori, per svolgere i compiti di autista, erano assoggettati alla normativa sui lavori discontinui.

In relazione alle altre censure la società ricorrente ha poi evidenziato che per talune particolari funzioni veniva erogato il c.d. straordinario extra assegno, consistente in una sorta di compenso riconosciuto in virtù della ex categoria di appartenenza; che il giudice d’appello, esclusa la necessità di una autorizzazione scritta e dunque espressa, era erroneamente pervenuto a ritenere esistente il consenso richiesto per la effettuazione del lavoro straordinario; che l’indennità di straordinario, di cui agli artt. 69 e 72 c.c.n.l., si riferiva a prestazioni economiche aggiuntive da erogarsi in presenza di eccezionali ed impreviste necessità valutate non dal diretto interessato; che, pertanto, in mancanza di una preventiva e prescritta autorizzazione da parte del direttore della filiale, la sussistenza delle suddette esigenze eccezionali che imponevano la prestazione lavorativa oltre le sei ore giornaliere non poteva essere ritenuta a livello probatorio sulla base di una autovalutazione operata dai dipendenti circa lo svolgimento dello straordinario e le sue modalità; che era, infine, anche errata la pronunzia di inammissibilità per mancata specificità del motivo di ricorso attraverso il quale erano stato denunziate omissioni della consulenza d’ufficio, che apparivano evidenti se solo si fossero esaminati i documenti in atti.

I motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per comportare l’esame di questioni tra loro strettamente connesse, vanno rigettati perchè privi di fondamento.

Sul versante processuale nessuna censura merita la impugnata sentenza che, nel rigettare le richieste avanzate dalla società nel giudizio di gravame attraverso il suo nuovo difensore, ha evidenziato come l’appellante sia tenuto a prospettare tutte le censure – anche quelle che attengono ad eccezioni con l’atto di appello non potendo aggiungere nulla in tempi successivi in quanto il diritto di impugnativa si consuma con l’atto iniziale. A tale riguardo va richiamato anche il costante indirizzo dei giudici di legittimità secondo i quali nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni che postulino accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito, a meno che tali questioni non abbiano formato oggetto di gravame e di contestazione specifica nel giudizio di appello, nel rispetto del contraddittorio ed in conformità della regola tassativa secondo cui i motivi di appello devono essere esposti tutti esclusivamente nell’atto di appello. Ne consegue che se una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcuno modo nella sentenza impugnata il ricorrente, che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione davanti al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio lo abbia fatto onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa (cfr. ex plurimis: Cass. 12 luglio 2005 n. 14599;

Cass. 19 novembre 2002 n. 16303).

Ed analoghe considerazioni valgono per quanto attiene alla doglianza riguardante la consulenza d’ufficio ritenuta inammissibile per mancata specificazione dei motivi di gravame volti a denunziare gravi omissioni nel suo contenuto.

Le critiche volte contro il riconoscimento dello straordinario per l’attività svolta dai dipendenti della società risultano, poi, prive di fondamento.

E’ giurisprudenza consolidata di questa Corte che il ricorso per cassazione con il quale si facciano valere vizi della motivazione della sentenza deve contenere la precisa indicazione di carenze o di lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato ovvero la specificazione di illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ne consegue che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e degli apprezzamenti dei fatto, attengono al libero, convincimento dei giudici e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Diversamente il motivo del ricorso per cassazione si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice di merito cui non può imputarsi d’avere omesso l’esplicità confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo (cfr. tra le altre: Cass. 30 marzo 2000 n. 3904; Cass. 6 ottobre 1999 n. 11121 cui adde, più di recente, Cass. 27 aprile 2004 n. 8718).

Orbene, nel caso di specie il giudice d’appello – dopo avere esaminato ed accertato i fatti di causa, anche alla luce delle risultanze documentali – ha ritenuto poi che fosse stato prestato lavoro straordinario da parte dei dipendenti della società a seguito di un consenso, sicuro seppure tacito, da parte della società. In altri termini la Corte territoriale ha messo in evidenza come nessun dubbio potesse sorgere in relazione alla richiesta autorizzazione della società alla prestazione di lavoro straordinario per la diffusione del fenomeno che non poteva sfuggire a quanti per dirigere i vari uffici erano a conoscenza delle modalità lavorative dei propri dipendenti.

Un siffatto iter motivazionale – per risultare congrue, privo di salti logici e rispettoso dei principi giuridici applicabili in materia, e per fondarsi su una corretta interpretazione della contrattazione collettiva – sottrae, come detto, la impugnata sentenza ad ogni genere di addebito anche perchè le ore di lavoro straordinario erano state accertate dal consulente tecnico, nominato nel corso del giudizio di primo grado attraverso l’esame della documentazione detenuta dalla società ed avente ad oggetto la rilevazione delle presenze dei lavoratori.

Per andare in contrario avviso e ritenere infondate le domande dei lavoratori, non vale, infine, addurre il carattere di discontinuità dell’attività spiegata dai lavoratori nè la corresponsione a questi di specifiche indennità destinate a compensare l’attività spiegata oltre i limiti convenzionali fissati dalla contrattazione collettiva.

Ed invero alla fondatezza della prima obiezione osta la compatibilità tra lavoro straordinario e lavori discontinui (cfr. tra le tante: Cass. 12 luglio 2005 n. 14599; Cass. 19 novembre 2002 n. 16303), mentre contro la seconda considerazione è sufficiente osservare come nel caso di specie non risulti provato (nè dal contenuto del ricorso di cassazione si ricavano elementi utili al riguardo) che l’emolumento cui la società fa riferimento abbia avuto la specifica funzione di compensare lo straordinario e che detto emolumento possa legittimamente escludere il diritto allo straordinario per garantirne e riconoscerne la piena corrispettività.

Il ricorso va, dunque, rigettato.

La ricorrente, stante la sua soccombenza, va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate unitamente agli onorar difensivi come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 23,00, oltre Euro 2.000,00 (duemila) per onorari difensivi ed oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 7 gennaio 2007.

Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2007  – – 

Sentenza Trentino

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